I profili di responsabilità di Amazon in quanto hosting attivo
di Alessandro La Rosa -
Amazon Europe Core S.a.r.l., Amazon Eu S.ar.l., Amazon Services Europe S.a.r.l. (“Amazon”), sono fornitori di servizi della società dell’informazione (cfr. art. 2 direttiva 2000/31) che, in determinate circostanze, possono essere considerate responsabili civilmente verso terzi per il materiale reso per loro tramite reperibile in rete da un utente-rivenditore. Tanto perché, alla luce delle circostanze del caso concreto, le modalità di fornitura del servizio può qualificarsi di tipo “attivo”. E’ questo ciò che emerge dall’ordinanza emessa a seguito del ricorso promosso dal gruppo Shiseido e successivamente confermato dall’ordinanza n. 175/2021 del medesimo Tribunale di Milano sezione Impresa “A” nell’ambito del procedimento n. 39325/2020 a fronte del reclamo sollevato da Amazon.[1]
Sul punto, la recente ordinanza del 19.10.2020, in cui parti attrici Beauté Prestige ed il gruppo Shiseido hanno agito nei confronti di Amazon per l’indebita promozione e offerta tramite il marketplaceAmazon.com e dei marketplace nazionali attivi in Europa prodotti recanti i marchi delle attrici. Le contestazioni mosse ad Amazon si fondavano sulla considerazione che essa è soggetto estraneo alla rete di distribuzione selettiva delle ricorrenti – titolari di marchi rientranti nella categoria luxury (si tratta nella fattispecie delle fragranze denominate “Narciso Rodrigez” e “Dolce & Gabbana”) e parteciperebbe altresì attivamente alle inserzioni di vendita gestite da terzi venditori, con servizi di stoccaggio, spedizione e servizio clienti i cui standard non sono in linea con quelli delle ricorrenti. E’ stato inoltre rilevato che in relazione alla natura del servizio offerto da Amazon, tale attività costituisce l’unico canale di cui il cliente dispone per potersi interfacciare con il venditore. Amazon sembra operare come venditore diretto dei prodotti oggetto di contestazione ed è per questo motivo che la detta società potrebbe essere considerata autore diretto delle condotte contestate. Quanto ai servizi di intermediazione, Amazon non potrebbe beneficiare dell’esonero da responsabilità di cui all’art 16 del D.lgs. 70/2003. I giudici milanesi1 hanno accertato che nel caso di specie il gestore del market-place sembra tenere una condotta attiva, avendo conoscenza e controllo dei dati che vengono inseriti dai terzi rivenditori, ma non solo; essa gestisce lo stoccaggio e la spedizione dei prodotti attraverso il servizio di “Logistica Amazon”[2], non limitandosi alla semplice intermediazione passiva, ma anche effettuando un’attività promozionale dei prodotti in contestazione. Il risultato è dunque che tale condotta non può essere qualificata meramente tecnica e passiva e si risolve invece in una condotta di tipo attivo, incompatibile col regime di limitazione della responsabilità dell’hosting provider di cui alla direttiva e-commerce.
A tali conclusioni si è giunti analizzando anche le regole contrattuali predisposte dalla stessa Amazon. Il paragrafo 4 delle Condizioni Generali d’Uso e di Vendita si legge che i marchi, non di sua proprietà ma visibili sul sito, “sono di proprietà dei rispettivi titolari, che possono essere o meno collegati, connessi ad Amazon o sponsorizzati da Amazon”, innescando con tale asserzione confusione presso il pubblico. Nell’ordinanza del 12.1.2021 si legge che “il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano e li spediscono all’acquirente; possono occuparsi anche della pubblicità e della diffusione delle offerte sul loro sito internet, offrono il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestiscono i rimborsi dei prodotti difettosi; ricevono dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario. Assumono in sostanza buona parte dei compiti propri del venditore e nell’esercizio di tali attività tengono un comportamento attivo ed esercitano un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso del marchio” (v. in tal senso Corte Giustizia UE, sentenza 3.3.2016, nella causa C-179/15, Daimler). Considerato che Amazon non intrattiene rapporti contrattuali con Shiseido, la condotta perpetrata è fonte di responsabilità extra-contrattuale. In questi termini sembra andare la sentenza C-230/2016 Coty della CGUE del 6 dicembre 2017 (vd. punti 49 e 50), con cui è stato accertato che il fornitore di prodotti di lusso “può agire nei confronti di piattaforme terze, con un’azione extra-contrattuale, quando la vendita di detti articoli sulle piattaforme possa determinare e determini lo scadimento delle caratteristiche qualitative di detti articoli, tra cui il prestigio dei brands poiché le modalità di vendita dei prodotti vanno a minarlo.
LA TESI DI AMAZON.
Amazon asserisce dal canto suo di non avere alcuna responsabilità in merito alle vendite effettuate da terzi in quanto agisce in relazione a queste offerte come fornitore di un servizio di hostingdi contenuti, operando come prestatore intermediarioai sensi degli artt. 14 della Direttiva 2000/31/CE e 16 del D. Lgs. 70/2003. Il reclamo proposto2 da Amazon verte sul rilievo che il primo giudice avesse “difatto esteso indebitamente a soggetti non appartenenti al sistema di distribuzione selettiva gli obblighi contrattuali incombenti sulle parti di tali accordi” ed inoltre che fosse stata “applicata indebitamente la regola contrattuale che non consentiva all’affiliato al sistema di offrire i prodotti in questione online”[3].
LE CONDIZIONI GENERALI E LA POLITICA ANTICONTRAFFAZIONE DI AMAZON.
Nelle condizioni generali tra Amazon e l’utente, in relazione a segnalazioni di violazioni di diritti di proprietà intellettuale si legge che: “Una volta ricevuta una segnalazione potremo intraprendere diverse azioni. Ad esempio, potremo rimuovere le informazioni di un articolo o un articolo, e chiudere un account in caso di ripetute violazioni ove ricorrano le condizioni”[4].
La “Politica Anti-contraffazione di Amazon” prevede che “i venditori e i fornitori di prodottinon autentici incorreranno nella sospensione o nella rimozione dell’account di vendita Amazon (e dieventuali account correlati). Amazon si riserva inoltre il diritto di distruggere a spese del venditore qualsiasiprodotto non autentico immagazzinato nei suoi centri logistici”. “I prodotti vietati includono copie illegali e copie pirata di prodotti o contenuti, articoli contraffatti,prodotti replicati, riprodotti o fabbricati illegalmente, prodotti che violano i diritti di proprietà intellettuale dialtre parti”[5]. Ciò, tuttavia, porta a considerare un vero e proprio coinvolgimento attivo nel servizio di vendita reso.
IL PREGIUDIZIO SUBITO DAL GRUPPO SHISEIDO.
Lapalissiano appare il pregiudizio subito dai marchi di lusso per via della presenza di materiale pubblicitario di prodotti di altri brands, anche di segmenti di mercato più bassi, nella stessa pagina internet destinata ad un pubblico potenzialmente illimitato. Ciò rischia ulteriormente di aggravare irreparabilmente la percezione di qualità e l’immagine che i prodotti evocano presso il pubblico. Così l’ordinanza cautelare del 19.10.2020 che dispone pertanto un ordine interdittivo a carico di Amazon circa i prodotti oggetto di giudizio e l’ordinanza del 12.1.2021 che conferma la responsabilità del colosso dell’e-commerce. Si sottolinea tuttavia che quanto deciso non significa che debbano considerarsi estesi ai terzi estranei gli obblighi specificamente posti a carico degli affiliati al sistema di distribuzione selettiva, bensì trattasi di valutare se le concrete modalità di commercializzazione poste in essere da dettiterzi siano o meno idonee a preservare le legittime esigenze dei titolari dei marchi di tali particolari categorie di prodotti. Si richiama la sentenza della Corte di Giustizia UE nel caso Coty (sentenza 2 aprile 2020, causa C‑567/18)[6], la quale ammette che una vendita online di prodotti di lusso tramite piattaforme che non appartengono ad alcun sistema di distribuzione selettiva di tali prodotti, e dunque rispetto alle quali il fornitore non ha la possibilità di controllare direttamente le condizioni di vendita dei suoi prodotti, determina il rischio di uno scadimento della presentazione di detti prodotti su internet, idoneo a nuocere alla loro immagine di lusso e, quindi, alla loro stessa natura. Pertinente a tal riguardo l’art. 54 degli Orientamenti sulle restrizioni verticali adottati dalla Commissione Europea nel 2010, il quale prevede che, il fornitore possa esigere il rispetto di standard qualitativi in relazione all’uso di siti internet per la rivendita dei suoi beni, così come può farlo in relazione ad un punto vendita off line.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.
La responsabilità civile dell’internet service provider verso terzi per il materiale reso per il suo tramite reperibile in rete da un utente trova fondamento negli artt. 12-15 della Direttiva 2000/31/CE, c.d. Direttiva sul commercio elettronico. Tale responsabilità è modulata in relazione alla natura stessa del servizio reso in concreto.
Le tre figure tipiche di intermediario della rete sono il “mere conduit” ovvero il fornitore di servizi di semplice trasporto (art. 12), il “caching” ovvero il fornitore di servizi di memorizzazione temporanea (art. 13) e lo “hosting” ovvero il fornitore di servizi di memorizzazione non temporanea (art. 14). In accordo alla direttiva 2000/31/CE (vd. comma 2 dell’art. 14), il provider “attivo” è certamente colui che immette in rete materiali di propria iniziativa ovvero colui che esercita un’autorità o un controllo sull’attività (talvolta illecita) posta in essere da un destinatario del suo servizio (nel caso sopra riportato, è evidente che il “destinatario” dei servizi di Amzon è anzitutto il rivenditore): in entrambi i casi esso non può essere esonerato da profili di responsabilità (come avvenuto nel caso di specie). Il considerando 42 della citata direttiva chiarisce infatti che “le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.
Sulla corretta portata ed interpretazione di queste norme la CGUE ha chiarito nel tempo che (C-521/17[7] SNB REACT V. METHA, 7.8.2018) “secondo giurisprudenza costante, gli articoli 12, paragrafo 1, 13, paragrafo 1, e 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 devono essere intesi alla luce del considerando 42 della medesima direttiva, dal quale emerge che le deroghe alla responsabilità previste dalla direttiva riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività dei prestatori di servizi della società dell’informazione sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo” (punto 47).
In altra occasione la Corte europea ha altresì chiarito che la regola generale è quella della responsabilità del provider, mentre le norme in esame introducono delle “deroghe” che, in quanto tali, vanno interpretate restrittivamente: “occorre anzitutto ricordare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, le disposizioni di una direttiva che derogano a un principio generale sancito dalla direttiva medesima devono essere interpretate restrittivamente (sentenza del 10 aprile 2014, ACI Adam e a., C-435/12[8], punto 22 e giurisprudenza citata)” (punto 32).
Tale ruolo “attivo” è stato riconosciuto più e più volte dalla Corte di Giustizia Europea, proprio in relazione a fattispecie afferenti la fornitura di servizi di intermediazione da parte di operatori che –come Amazon- offrono servizi di market-place. Già nel 2011 (sentenza 12.7.2011 L’Oréal e-Bay C-324/09[9] punto 116) la CGUE chiariva infatti che “laddove, per contro, detto gestore abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31”.
Prima ancora, nel marzo 2010 (sentenze del 23 marzo 2010, Google France, C-236/08 a C-238/08, punto 120) sempre la CGUE affermava che “l’art. 14 della direttiva 2000/31 deve essere interpretato nel senso che la norma ivi contenuta si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su Internet qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati”.
Così anche in tempi più recenti (vd. C- 521/17 SNB REACT V. METHA, sentenza 7.8.2018): “Per contro, tali limitazioni di responsabilità (direttiva 2000/31) non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell’informazione svolga un ruolo attivo, consentendo ai suoi clienti di ottimizzare la loro attività” (punto 48). “In tali condizioni, spetta al giudice del rinvio, verificare che un simile prestatore non svolga un ruolo attivo consentendo a questi ultimi di ottimizzare la loro attività” (punto 50).
LA DECISIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SUI SERVIZI DI AMAZON NELLA CAUSA C‑567/18.
Circa il ruolo dei giganti dell’e-commerce in relazioni ai servizi di hosting si è nuovamente espressa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C‑567/1810, sulla base della questione pregiudiziale sottopostale dalla Corte federale di giustizia tedesca, relativa all’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera b), del regolamento n. 207/2009 e dell’articolo 9, paragrafo 3, lettera b), del regolamento 2017/1001.
Coty, azienda che distribuisce profumi e titolare di una licenza sul marchio dell’Unione europea, ha rilevato che tramite il market place di Amazon.de venivano venduti prodotti non immessi in commercio nell’Unione con il consenso del titolare del marchio.
Seppur la Corte nella sentenza si sia espressa negativamente in merito al ruolo di Amazon in relazione all’uso del marchio in questione secondo quanto stabilito dai regolamenti sopra citati, allo stesso tempo i giudici europei riconoscono che – in situazioni come quelle esaminate – rileva anche la normativa in materia di e-commerce: precisamente si afferma che “si deve ricordare come risulti da una giurisprudenza consolidata che, quando un operatore economico ha permesso a un altro operatore di fare uso di un marchio, il suo ruolo deve, all’occorrenza, essere esaminato con riferimento a norme giuridiche diverse dall’articolo 9 del regolamento n. 207/2009 o dall’articolo 9 del regolamento 2017/1001 (v., in tal senso, sentenze del 23 marzo 2010, Google France e Google, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 57, e del 15 dicembre 2011, Frisdranken Industrie Winters, C‑119/10, punto 35), quali l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 o l’articolo 11, prima frase, della direttiva 2004/48”. Con ciò lasciando chiaramente intendere che Amazon ben può essere considerato responsabile della vendita non autorizzata di prodotti recanti marchi di terzi alla luce del corpo normativo che disciplina il regime di responsabilità dei gestori di market-place.
Molto più esplicite sono state le conclusioni dell’Avvocato Generale[10] sul caso de quo, laddove si legge chiaramente che il regime speciale di limitazione della responsabilità del gestore di un market place potrà trovare cittadinanza solo nel caso in cui esso gestore fornisca un servizio di “mero deposito” delle merci.
Diversamente dal caso in cui al detto servizio dovessero affiancarsi ulteriori attività aggiuntive, come nel caso concreto faceva Amazon tramite il suo servizio “Logistica di Amazon[11].
[1]Vd. Ordinanza del 12.1.2021 del Tribunale di Milano.
[2]Il servizio consente la “consegna rapida Prime” e la “vendita semplificata in tutta Europa”. “Un numero maggiore di clienti comporta un incremento delle vendite. Non devi fare altro che inviarci i tuoi prodotti e noi ci occuperemo dello stoccaggio, della consegna ai clienti, dell’assistenza clienti e della gestione dei resi.” (cfr. https://logistics.amazon.it/).
[3] In relazione all’ordinanza cautelare emessa in data 19.10.2020.
[11]Così i considerando 77-82 del parere dell’Avvocato Generale.
“Nella sentenza L’Oréal, la Corte ha esaminato le misure che, ai sensi di detta disposizione, possono essere richieste al prestatore di servizi online per prevenire qualsiasi violazione dei diritti di proprietà intellettuale di terzi. Ha ricordato, in primo luogo, l’articolo 15 della direttiva 2000/31, che esclude un obbligo generale di sorveglianza a carico dei prestatori di servizi. In secondo luogo, ha fatto riferimento all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2004/48, sottolineando che le misure volte ad assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale devono essere applicate in modo tale da evitare la creazione di ostacoli al commercio legittimo.
In tale contesto, una proposta idonea a garantire il giusto equilibrio tra la tutela del diritto di marchio e l’assenza di ostacoli al commercio legittimo sarebbe, a mio avviso, distinguere tra gli intermediari in funzione della qualità dei servizi offerti all’autore diretto della violazione del marchio.
Così, i meri depositari che svolgono soltanto attività ausiliarie sarebbero esenti da responsabilità qualora non siano intervenuti nell’attività di violazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevoli. In altre parole, qualora non avessero né potessero aver avuto cognizione della natura illecita della commercializzazione del prodotto immesso sul mercato da un venditore senza rispettare il diritto del titolare del marchio.
Fatte salve alcune precisazioni che non occorre apportare ora, non si può imporre ai meri depositari un particolare obbligo di diligenza per accertarsi, in ciascun caso, del rispetto dei diritti del titolare del marchio che designa le merci loro affidate, a meno che l’illiceità della violazione sia palese. Un obbligo generalizzato in tal senso graverebbe eccessivamente sulle normali attività di simili imprese, in quanto prestatrici di servizi ausiliari al commercio.
La situazione è diversa quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità.
Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo, potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi», esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore.
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