Angela Mendola, Libertà di espressione e “costo” del consenso nell’era della condivisione digitale, Cedam, 2023.

di Giovanni Maria Riccio (recensione di)

Le caratteristiche proprie del “sistema web” oggi permettono alle aziende di personalizzare il messaggio pubblicitario mediante la raccolta di big data e la lavorazione degli stessi da parte di specifici algoritmi. In un’ottica comparatistica, a fare da sfondo all’analisi condotta in “Libertà di espressione e ‘costo’ del consenso nell’era della condivisione digitale” di Angela Mendola, edito da Wolters Kluwer-Cedam (febbraio 2023), è proprio la tutela del dato personale “condiviso” in rete. Nel sistema americano, come noto, le leggi federali non contemplano una protezione globale della privacy, a differenza del contesto eurounitario in cui, invece, il diritto alla protezione dei dati personali è collocato in una posizione di preminenza, soprattutto rispetto ad interessi economici come quello della libertà d’impresa. La ricerca sviluppata dimostra, però, come l’esigenza di tutela del consumatore sia particolarmente avvertita, a fronte dei pericoli derivanti dalla raccolta di informazioni, anche dal modello statunitense, laddove la Federal Trade Commission ha ingiunto ai principali prestatori di servizi della società dell’informazione di adeguarsi ai principi di trasparenza, consenso e sicurezza dei trattamenti di dati personali. Ne sono dimostrazione il California Consumer Privacy Act, entrato in vigore il 1 gennaio 2020, che riconosce ai consumatori il diritto di essere informati su come le informazioni personali vengono raccolte; e il New York Privacy Act 2021 che ha impedito alle imprese di utilizzare le informazioni altrui in modo lesivo, obbligandole a rivelare i destinatari con cui esse vengono condivise.
L’attenzione degli utenti, in siffatto sistema dato-centrico, costituisce, senza dubbio, una risorsa di cui le multi-sided platforms hanno interesse ad appropriarsi e, a tal fine, il principale strumento utilizzato è quello della stipula di contratti di personality merchandising, cui è dedicato il secondo capitolo. L’autrice sottolinea che il profilo causale di questi negozi si può individuare nell’interesse ad acquisire il diritto di sfruttare la notorietà raggiunta da un personaggio pubblico, onde incentivare i consumatori all’acquisto di un prodotto. Nella maggior parte dei casi, infatti, le imprese, dietro corrispettivo, affidano a determinate celebrities la pubblicizzazione dei propri brand, essendo ben consapevoli che la notorietà di un personaggio possa aumentare non solo il numero di condivisioni, ma anche seguaci e acquirenti finali. Basti pensare alla centralità dell’attività dei content creators di monetizzare contenuti e di condizionare i comportamenti di acquisto dei consumatori, con cui entrano in contatto diretto e senza filtri. In virtù dello scopo lucrativo perseguito dalle aziende soprattutto attraverso lo “sfruttamento” della capacità attrattiva degli influencer, l’immagine degli stessi acquisisce un valore economico tale da costituirne un corrispettivo. Essa inerisce invero alla sfera fondamentale della persona, tanto in termini di vantaggio quanto di “costo”. Potrebbe, ad esempio, verificarsi che la celebrity intenda ritrattare la scelta di diffondere la sua immagine. Lo studio condotto dall’autrice, infatti, si sofferma altresì sulle ipotesi in cui l’endorser, il testimonial o lo sponsee non acconsenta più all’utilizzo del proprio ritratto ai fini pubblicitari e ci sia pertanto una abusiva pubblicazione dell’immagine altrui. In tali circostanze, i differenti sistemi giuridici, pur apprestando diverse tutele, risultano condividerne il fondamento di stampo prevalentemente restitutorio. Poiché a determinarsi, a carico della “vittima”, non è una vera e propria perdita economica, quanto una illecita disposizione di un suo diritto, va da sé che la tutela preferibile non potrebbe rivelarsi quella risarcitoria. Nel sistema giuridico tedesco, ad esempio, si è fatta strada la possibilità di esigere la restituzione del profitto che l’utente non autorizzato ha tratto dal suo intervento ai sensi del § 812 I 1 Alt. 2 BGB. Il riferimento, in questi casi, è all’Eingriffskondiktion e, dunque, all’arricchimento da ingerenza che appronta una adeguata tutela laddove si determini una violazione dell’obbligo di astenersi dall’invadere la privacy di una persona. Come dire che colui il quale agisce illecitamente e si arricchisce deve anche sopportare la perdita dell’arricchimento che si è prodotto. L’analisi della prospettiva rimediale, per Angela Mendola, offre un interessante angolo di osservazione perché fa emergere soluzioni difformi legate ad un diverso modo di proteggere il diritto di sfruttare commercialmente la propria immagine. Talvolta, come nel caso dell’esperienza di common law, il contesto della costruzione tecnico-giuridica ha condotto allo sviluppo ora di un case law che in Inghilterra recupera e adatta esistenti figure di illecito, quale quella del passing off, ora, come negli Stati Uniti, di un legal framework che, mediante il riconoscimento di un right of publicity assicura alle celebrities la possibilità di impedire ad altri di utilizzare le caratteristiche della loro persona. Sebbene passing off e right of publicity condividano una fondamentale somiglianza, in quanto, in entrambi i casi, ad essere tutelato è “the valuable commercial goodwill” di un personaggio famoso, profondamente diversi appaiono gli elementi delle due cause of action, come illustrato nel prosieguo dell’indagine dalla dott.ssa Mendola.
Speculare poi si rivela l’approfondimento sul divieto di pubblicità occulta nell’ambito dei social network. Aspetto questo che ha attirato l’attenzione di organismi di vigilanza come la Federal Trade Commission americana e l’Autorità Italiana per la Concorrenza e per il Mercato. In particolare, la prima, attraverso le Endorsement Guides contenute nell’eCFR (Electronic Code of Federal Regulations), si è occupata del fenomeno, ponendosi in un’ottica di contrasto allo stesso. Lo strumento utilizzato è stato l’invio di numerose lettere di moral suasion dirette a inserzionisti e celebrità, con l’obiettivo di ricordare loro di comunicare chiaramente le relazioni esistenti con i brand che promuovono. Sulla scia di questo esempio americano, le principali autorità di autodisciplina pubblicitaria europee hanno manifestato una evidente sensibilità verso il fenomeno del consumer marketing. Ne è prova, in Europa, l’adozione, sulla scorta dei principi contenuti nel Consolidated Code on Advertising and Marketing Communication Practice redatto dall’International Chamber of Commerce, delle Digital Marketing Communication Best Practice Recommendation. Determinante, ad esempio, è il ruolo che l’autorità di autoregolamentazione della pubblicità spagnola svolge in termini di integrazione della disciplina comunitaria prevista in materia di protezione dei consumatori, incoraggiando il monitoraggio di eventuali infrazioni. L’esigenza di evitare il più possibile fenomeni di digital marketing occulto ha, così, condotto anche l’Autorité de Régulation Professionnelle de la Publicité ad emanare, nel 2022, il Digital Advertising Communication Code V5. Non meno incisiva la posizione del sistema giuridico italiano, in cui, nel 2016, l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria ha divulgato sul proprio sito la c.d. Digital Chart, per garantire che la comunicazione commerciale digitale sia sempre più “onesta, veritiera e corretta” (come richiesto all’art. 1 del C.A.P.), a tutela dei consumatori e delle imprese, col fine di preservare il rapporto fiduciario che deve sussistere con gli utenti del web, i quali devono percepire, inequivocabilmente e fin dall’inizio, la natura promozionale del messaggio veicolato in rete. Il general framework della tutela del consumatore, osserva l’autrice, si fonda, del resto, “sull’idea che solo un utente informato in modo trasparente è in grado di assumere una decisione razionale”.
La comunicazione moderna si identifica, quindi, nel modo in cui si struttura il social medium e, di conseguenza, si esprime attraverso le caratteristiche del mondo del web. Se, però, da un lato, meritevole è la rapida reperibilità e trasmissione di innumerevoli dati utili per gli utenti, dall’altro, vi è il rischio del mancato controllo degli stessi e quindi la loro potenziale ed irrefrenabile capacità di produrre effetti dannosi. È, infatti, proprio l’incontenibile libertà di pubblicare le proprie idee, che ha consentito la massima espressione di sentimenti d’odio o di fake news. La propagazione di siffatti eventi patologici è, d’altronde, determinata dalla condivisione (sharing) dei social media. Di questi temi si tiene conto nell’ultimo capitolo del volume, allorché, ponendosi il focus sul “Code of Conduct on illegal online hate speech” e sul “Code of Practice on Disinformation”, si delinea il profilo dei cc.dd. “danni da condivisione digitale”. Passando in esame la giurisprudenza italiana e, in particolare, le pronunce dei giudici di merito nelle vicende che vedono coinvolte le associazioni Casa Pound e Forza Nuova, Angela Mendola condivide l’impostazione per cui la posizione di tutti i social network sia “di garanzia” poiché essi gestiscono le pagine social e sono chiamati a rimuovere i contenuti illeciti pubblicati dai terzi esercitando il proprio potere di gestione, ricalcandolo lo schema della c.d. responsabilità da posizione. Alla luce delle nuove modalità di espressione e divulgazione di contenuti falsi, l’autrice dedica poi spazio anche alla NetzDG (Netzwerkdurchsetzungsgesetz), del 30 giugno 2017, quale strumento normativo per il contrasto degli illeciti sulle piattaforme di comunicazione del c.d. web 2.0; e alla Loi n. 2018-1202 del 22 dicembre 2018, “relative à la lutte contre la manipulation de l’information”, che impone ai gestori di piattaforme informatiche obblighi di tempestiva rimozione di qualsiasi contenuto illecito di cui vengano a conoscenza. Da qui, il lavoro di Angela Mendola affronta il problema della responsabilità della società di gestione dei social media in caso di illeciti perpetrati da terzi, offrendo al lettore un’analisi, anche giurisprudenziale, che va dal principio della net neutrality alla responsabilità del social network provider “per fatto proprio colpevole”. I social network facilitano, del resto, la trasmissione rapida delle informazioni memorizzate, configurandosi il rischio che un’informazione qualificata come illecita possa essere successivamente riprodotta e condivisa da un altro utente. Ed infatti, i social network provider non si limitano a svolgere un’attività di hosting neutrale, ma intervengono direttamente nell’organizzazione, nella gestione e talvolta anche nell’editing dei contenuti, al fine di aumentare i ricavi derivanti dalla raccolta pubblicitaria. Sicché obiettivo indiscusso, per l’autrice, è quello di salvaguardare l’indipendenza della rete e la libertà di espressione, mai avulse, però, da un controllo sui contenuti divulgati e sui soggetti che potrebbero essere danneggiati dagli illeciti telematici.